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I bambini dell’asilo di collina stanno sulla destra, alcuni rabbrividiscono nel freddo del pomeriggio di dicembre, ma tutti sorridono e cantando guardano qualcosa davanti a loro, sulla sinistra. Non li sento, non sono lì; io vedo solo la fotografia arrivata su whatsapp che la mia amica, mamma di una cinquenne, mi ha appena mandato. Ne avrei scritto due anni più tardi sul blog Exit.bio (ed è quello che state leggendo).

Lei, la mamma, si è messa di lato; le avevo suggerito, quasi richiesto, di provare a fare una fotografia dell’insieme, per vedere che cosa i genitori oggi fanno alle recite: i bambini sono a destra, a sinistra stanno i loro genitori. Accovacciati, qualcuno con il ginocchio a terra, altri protesi a pressoflettere al limite i dischi tra le lombari, tutti hanno in mano qualcosa di scuro, più o meno piccolo, e ci guardano dentro: tutti, senza eccezione alcuna, guardano i loro bambini attraverso un apparecchio digitale.

Si accendono si spengono le luci di Natale. Ricordano agli uomini giustizia pace e amore. Sulle note di Stille Nacht, heilige Nacht, venti anni fa, cercavo di guardare i miei figli, bambini. Aprivano e chiudevano le manine sul cui palmo erano disegnate le luci di mille candeline. Meravigliosi. La melodia mi straziava e non li vedevo perché le lacrime mi coprivano gli occhi, il cuore dolorava, e non solo perché anni prima avevo accarezzato le mani gelide di mio padre morto d’improvviso e lui non era lì, e non solo perché sentivo quella musica che era stata Natale ogni anno della mia infanzia, ma perché sentivo gelida la fine del nostro amore posarsi su noi due. E non sapevo cosa fare, e ogni stellina di Natale, ogni calore famigliare sentivo che erano quasi del tutto spenti, e di certo per sempre.

Noi stavamo lì, cercando di gioire di quel magnifico coro, e guardavamo, io come potevo tra una lacrima e l’altra, i bambini sul palcoscenico dei Piccoli Cantori di Torino. Non avevamo cellulari cui delegare l’opera di traslare trasporre e soffocare i sentimenti, e non avevo fazzoletti per me.

In collina all’asilo i bambini cantano, guardano davanti a loro, ma non guardano la selva immonda degli apparecchi digitali dei loro genitori accovacciati. Guardano più in su, guardano quelli in piedi che li guardano. I nonni. I nonni non hanno i cellulari; tengono le mani davanti, molti alla bocca, quasi tutti sorridono, meravigliati. Seguono e guardano, sono in contatto e seguono. Non pensano a catturare in un apparecchio quel momento: lo vivono, ne godono. I nonni seguono e crescono, e i bambini sembrano seguire loro. Loro e i nonni — e solo loro — crescono e vivono la loro emozione.

Loro potranno raccontarsela, ritornarci con il pensiero, perché l’emozione l’hanno vissuta; quei poveri trentenni aggrappati ai loro cazzo di strumenti forse cercando tra i milioni di scatti proveranno a riprodurre dopo ciò che hanno mancato prima; vivranno di memorie false, ricostruite dal cumulo di byte, rappezzate con lacerti di emozioni mancate. Poveretti loro, che si sono fatti dominare da piccole scatolette che promettono memoria eterna e ghiacciano il momento di qui e ora. Poveretti.

È tempo di fermarsi, pensare e dire NO, grazie! Buon anno nuovo Sloweb, buon anno nuovo Exit.bio!!