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Siamo a cena a Cit Turin, a casa di Giovanna che ha compiuto da poco gli anni vicini ai 60. Due uomini, quattro donne, il figlio di lei Marco studente al primo anno di università. Marco arriva, si siede a capotavola, non dice una parola.

Noi chiacchieriamo e beviamo, e dopo un poco, prima in tono sommesso poi a voce più alta dice: non capisco, mamma ogni settimana ha tanti suoi amici qui e sembrano felici. Sono due mesi che io provo ad avere i mei amici qui, ho la casa a disposizione, mamma farebbe la cena, andrebbe anche via. Ma non riesco a combinare. Ci sentiamo sui social, ci diciamo ma certo, mille messaggi ma poi non ci vediamo.

Oh cazzo. Stanno tutti in silenzio, e non per poco. Poi Stefano, che insegna in un liceo, dice dolcemente: forse voi vi siete già tanto parlati per chat che non sentite il bisogno di vedervi? Vedi che qui nessuno ha il cellulare sul tavolo. Ma si vergogna un poco di dire così, sa che sta mettendo le mani sul delicato. Marco dice eh già sì forse, afferra due spiedini, li divora, e dopo poco se ne va. Continuiamo e giustiziamo una seconda bottiglia di prosecco. Parliamo di digital detox, e ne chiacchieriamo a lungo, insegnandoci e imparandoci. Nessuno si fa interrompere da un sms.

La sera dopo sono a cena con altri amici, Cynthia racconta dell’appartamento nel villino in cima alla strada sotto al Monte dei Cappuccini. Il nome della strada e la parola villino risvegliano subito in me lontani ricordi. Ma aspetto, ascolto, come quando leggi un libro e giri la pagina sapendo un poco cosa leggerai. Il villino era di Carlo Levi. Ecco, improvviso il ricordo. Riaffiora. Irrompe nella mia memoria.

Lei, la Luisa Levi. Sorella di Carlo amatissima. Psichiatra, badava ai matti di Collegno. Luisa abitava al quarto piano di Corso Galileo Ferraris 53. Di fianco a noi. Il nostro appartamento aveva solo affacci sul corso e le montagne, una grata su un pianerottolo che dava sull’ingresso di lei, e in dotazione un balcone (vista collina) per stendere i panni sul cortile, oltre a quel pianerottolo. Una sera era ora del bagno, forse le sette e mezza. Avevo otto anni. Io litigavo con i fratelli — forse per chi doveva entrare nella vasca per primo o per ultimo. Scappai nudo con solo la canottiera sul balcone per non farmi prendere. Dopo poco, che stavo già raffreddandomi, vidi un uomo scuro e massiccio che suonava alla Luisa Levi. Spaventato ritornai in casa sbattendone con forza la porta.

Ore dopo, avevamo cenato, la Polizia suonò in casa. Luisa Levi era stata aggredita, ricordo la sua faccia graffiata. Aveva aperto e subito gridato, ma il suo grido non si era sentito per colpa mia e della porta sbattuta. Il matto non l’aveva uccisa, ma certo picchiata. Tutti poi a dirmi meglio così chissà cosa avrebbe fatto se papà lo avesse affrontato, ma io mi sentivo uno schifo. Emozione ancora viva dopo più di cinquanta anni. Che buffo e che bello che la vita riporti in superficie memorie e emozioni. Basta usare poco i social, e invitare gli amici a cena. Per conversazioni inaspettate, a sgrovigliare il fondo delle nostre memorie. Un rumore, la porta sbattuta, a volte basta.

Memories, emotional memories worth to remember, Exit.bio.